Con la sentenza n. 6425/2018 la Corte di Cassazione chiarisce la differenza tra la normale email e la PEC: il contenuto delle email con può essere utilizzato come prova per il licenziamento per giusta causa poiché, si legge nella sentenza: “Non si tratta di posta elettronica certificata o sottoscritta con firma digitale che può garantire l’identificabilità dell’autore e l’identità del documento.”
Nel caso esaminato dai giudici, il licenziamento intimato al lavoratore si basava su messaggi di posta elettronica prodotti dalla società e su dichiarazioni di lavoratori direttamente coinvolti nella procedura irregolare, riportate nella relazione di audit interno. In proposito venivano sollevati dubbi sulla valenza probatoria dei messaggi posta elettronica acquisiti dal datore di lavoro in relazione all’account aziendale del lavoratore, trattandosi o di corrispondenza la cui acquisizione richiedeva determinate garanzie e l’intervento dell’autorità giudiziaria o di documenti provenienti dal datore di lavoro che aveva la piena disponibilità del server aziendale e, quindi, la astratta possibilità di intervenire sul relativo contenuto. In particolare i giudici della Cassazione precisano che “Quanto all’efficacia probatoria dei documenti informatici, l’art. 21 del medesimo D.Igs., nelle diverse formulazioni, ratione temporis vigenti, attribuisce l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del cod. civ. solo al documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, mentre è liberamente valutabile dal giudice, ai sensi dell’art. 20 D.Lgs 82/2005, l’idoneità di ogni diverso documento informatico (come l’e-mail tradizionale) a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità.”
Diverso sarebbe stato quindi il caso in cui si fosse trattato di corrispondenza elettronica certificata e sottoscritta con firma digitale, in grado di garantire la identificabilità dell’autore e l’identità del documento.
Apr 3