Chi non accetta pagamenti con carte di pagamento o bancomat non può essere sanzionato, perché l’ammenda non può essere imposta se non in base alla legge. La Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del Consiglio di Stato, con decisione n. 1446 del 1° giugno 2018, ha infatti reso parere negativo in merito allo “Schema di Regolamento sulla definizione delle modalità, dei termini e degli importi delle sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti alla mancata accettazione dei pagamenti mediante carte di debito e carte di credito”.
In sostanza, il provvedimento, previsto dal comma 5, dell’art. 15 del D.L. n. 179/2912, convertito dalla L. n. 221/2012, così come modificato dall’art. 1, comma 900, lett. c), della L. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) e che doveva prevedere specifiche sanzioni pecuniarie amministrative in caso di mancata accettazione di pagamenti tramite carta di debito e carta di credito, non può proseguire il suo corso.
Tale decisione è stata presa a seguito di una richiesta del Ministero dello Sviluppo Economico, con nota numero 7137 del 28 marzo 2018, in relazione allo schema di regolamento sopra menzionato.
Nella relazione di accompagnamento allo schema di decreto il Ministero dello Sviluppo Economico rammenta che la precedente disciplina, pur prevedendo l’obbligo del possesso da parte dei soggetti beneficiari degli strumenti in grado di consentire il pagamento tramite carta di debito e il conseguente obbligo di consentirne l’utilizzo agli utenti, non prevedeva alcuna sanzione in caso di mancata installazione del POS ovvero di mancata accettazione della carta di debito.
Tale carenza ha determinato, finora, la mancata applicazione dello specifico obbligo vanificando, di fatto, la previsione legislativa.
Nella relazione viene, inoltre, sottolineato che la norma primaria, nel rinviare al decreto attuativo la predisposizione della disciplina in materia di modalità, termini e importo delle sanzioni amministrative pecuniarie, anche in relazione ai soggetti interessati, non ha fornito criteri e limiti specifici quali: importo minimo massimo, indicazione dell’autorità competente ad irrogare la sanzione, procedure applicabili.
Di conseguenza, il Ministero dello Sviluppo Economico – ritenendo che l’obbligo di accettazione dei pagamenti con carte di debito/credito possa essere assimilato all’obbligo di accettazione della moneta legale “fisica” previsto dall’art. 693 del Codice Penale – ha previsto nel regolamento una sanzione pecuniaria di 30 euro per ogni pagamento elettronico rifiutato, assimilando tale sanzione a quella prevista dal citato articolo 693 del Codice penale che dispone che “chiunque rifiuta di ricevere, per loro, monete aventi possono dallo Stato, è punito con la sanzione amministrativa fino a 30 euro”.
Il Ministero, quindi, ha dovuto far “riferimento a quanto già disposto dall’ordinamento nazionale vigente piuttosto che prevedere direttamente una nuova”.
Il Consiglio di Stato, però, pur condividendo gli obiettivi della lotta al riciclaggio e all’evasione, rileva che il richiamo all’articolo 693 “non è condivisibile sul versante strettamente giuridico” in quanto “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”.
Per i giudici, quindi, il riferimento alle sanzioni previste dall’art. 693 del codice penale “non è rispettoso del principio costituzionale della riserva di legge in quanto carente di qualsiasi criterio direttivo, sostanziale e procedurale”.
Infatti, sono le leggi che devono prevedere gli elementi essenziali della fattispecie che concorrono ad identificare la prestazione demandando, per contro, alle norme regolamentari la individuazione degli elementi non essenziali o secondari. Il Collegio ritiene pertanto che nel caso specifico “la determinazione dell’entità della sanzione costituisca un elemento essenziale della fattispecie non integrabile su base regolamentare (non essendo sufficiente indicare il solo carattere amministrativo della sanzione)”.
Il Consiglio di Stato, quindi, suggerisce di ricercare la soluzione “all’interno dell’ordinamento giuridico che disciplina le attività commerciali e professionali. In altri termini, nel caso in esame potrebbe trovare applicazione una già esistente norma di chiusura, prevista dal vigente quadro giuridico di riferimento, che sanzioni un inadempimento di carattere residuale. Che contempli, cioè, qualsiasi altra violazione di adempimenti legittimamente imposti nell’esercizio della arte, commercio o professione”.
In definitiva, il Consiglio di Stato ha motivato il parere negativo in merito alla soluzione prospettata dal Ministero dello Sviluppo Economico, asserendo che:
– l’obiettivo di una efficace lotta al riciclaggio, all’evasione e all’elusione fiscale – da incentivare attraverso la completa perimetrazione del quadro giuridico di riferimento, anche mediante la sua omogeneizzazione – “deve, però, necessariamente essere conseguito con l’adozione di provvedimenti rispettosi, sotto l’aspetto formale e sostanziale, dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico”;
– il citato art. 15, comma 5, del D.L. n. 179/2012 non risulta conforme al principio costituzionale della riserva di legge sancito dall’art. 23 della Costituzione, “in quanto carente di qualsiasi criterio direttivo, sostanziale e procedurale”;
– l’individuazione da parte del Ministero dello Sviluppo Economico della sanzione prevista dall’art. 693 Codice penale «configura una violazione insuperabile del principio della riserva di legge, oltre che del divieto di applicazione dell’analogia ai fini dell’individuazione della sanzione».
Giu 11